Scienza Maledetta

Milgram Experiment (1961): Il Mito E, Probabilmente, La Realtà (Parte 3)

Nella prima parte dello speciale sul Migram Experiment ne ho delineato le motivazioni, nonché il reclutamento dei volontari e il funzionamento. Nella seconda parte sono entrato maggiormente nel dettaglio dell’esperimento e ho presentato i risultati: due volontari su tre, obbedirono ciecamente all’autorità e inflissero la scarica massima, quella da 450 Volt, all’allievo.

Possiamo dedurre da ciò che l’uomo è incline alla complicità con le figure autoritarie, indipendentemente dalle conseguenze delle proprie azioni?

Il Milgram Experiment nacque per indagare sull’obbedienza dei gerarchi nazisti ai loro superiori (L’Olocausto fece tra le 15 e i 17 milioni di vittime, di cui quasi 6 milioni ebrei) ovvero se: “Io eseguivo solo gli ordini” fosse un alibi sincero e accettabile. Tuttavia, escluso che la cieca obbedienza fosse un tratto caratteriale tipicamente germanico, i risultati dell’esperimento si prestavano ad avere una valenza universale: non solo i nazisti, ma tutti la maggior parte degli esseri umani, posta in circostanze analoghe, avrebbero compiuto le medesime atrocità.

La questione è complessa.

Se da un lato il Milgram Experiment, il primo, il più famoso, prestava il fianco a tutta una serie di obiezioni morali e tecniche (le vedremo nel dettaglio a breve), dall’altro le successive variazioni dello stesso, per un totale di 18 esperimenti, fornivano un quadro completo delle circostanze che possono rendere un uomo “complice” dell’autorità o ribellarvisi.

Il primo, grande, critico di questa serie di esperimenti fu, del resto, Stanley Milgram stesso.

Secondo lo psicologo americano, furono molti i fattori chiave ad influenzare una percentuale così alta di obbedienti. Ad esempio la reiterata rassicurazione che le scariche elettriche, pur estremamente dolorose, non avrebbero causato morte o danni permanenti all’allievo. Oppure, che l’assistente (la figura autoritaria) era presente nella stanza, vicino al volontario, e che era percepito come persona estremamente competente. L’esperimento, inoltre, si svolse in un laboratorio di Yale, già allora Università tra le più importanti degli Stati Uniti: poteva un volontario credere che in quell’ateneo si stesse tenendo un esperimento che poteva portare alla morte di qualcuno?

Nel libro “Obedience to Authority” lo psicologo rivela i risultati di altre variazioni dell’esperimento. Ad esempio se all’interno della stanza vi era un terzo soggetto, ribelle all’autorità, i volontari manifestavano più resistenza a proseguire l’esperimento e abbandonavano con più frequenza.

Non furono le uniche critiche.

Le critiche più aspre, al tempo, riguardarono innanzitutto l’etica: i volontari vennero posti in una situazione di estremo stress (lo dimostrano anche i sintomi provati da tutti, come il tremore o l’eccessiva sudorazione) e il timore diffuso era che senza un adeguato supporto al termine del test (il cosiddetto “debrief“, in cui viene spiegato al volontario l’esatta natura dell’esperimento e il suo funzionamento) questa avrebbe potuto causare danni psicologici anche a lungo termine.

Stanley Milgram, a questa obiezione, rispose che tutti i volontari erano stati adeguatamente ascoltati e confortati al termine della loro partecipazione.

Inoltre, per quanto le 18 variazioni coinvolsero centinaia di persone, i singoli esperimenti coinvolgevano solo un numero limitato di persone, per altro tutte provenienti da auto-candidatura (risposero ad un annuncio). Per la cronaca: tutti i volontari della serie del Milgram Experiment erano uomini.

Se poi si osservano i risultati di tutte le varianti dell’esperimento, l’inquietante 65% di obbedienti si osserva in uno solo, quello più famoso. Tutte le successive variazioni portano a risultati molto più modesti.

Nel 1972 se ne organizzò una versione simile, ma con una vittima “reale”: un cane.

La convinzione che la maggior parte dei volontari degli esperimenti condotti a Yale fosse consapevole che si trattava di una messinscena, ispirò Charles Sheridan (Università del Missouri) e Richard King (Berkeley University, California) a servirsi di una vittima reale, ovvero un cucciolo di cane, per rendere genuine le reazioni e le decisioni dei volontari .

Nel 1972 prende corpo l’esperimento, che sarà documentato nel paper: “Obedience to authority with an authentic victim“, e di cui ho parlato nell’articolo: “Come Il Milgram Experiment. Ma Con Un Cane.” [Virtua Salute, 11 Ottobre 2019]

Il tentativo di replicare l’esperimento in tempi moderni

Nel 2006 lo psicologo Jerry Burger, dell’Università di Santa Clara ha provato a replicare il Milgram Experiment in una versione più “soft”, conscio che le procedure originali non sarebbero state ammissibili secondo gli standard morali moderni.

Le differenze più sostanziali erano: la scarica massima somministrabile era di 150 Volt invece di 450, e che tutti i partecipanti (70, ambo sessi) erano stati preselezionati accuratamente tra coloro che si dimostravano psicologicamente più forti e che presumibilmente non avrebbero subito danni psicologici dopo il test.

Le percentuali di obbedienza furono più basse di quelle ottenute da Milgram, senza significative differenze tra uomini e donne.

Il test di Burger è documentato in diversi paper, tra cui: “Replicating Milgram: Would people still obey today?” ed è narrato nel dettaglio da Jerry Burger stesso nell’articolo: “Replicating Milgram” sulla rivista dell’Association for Psychological Sciences.

Anche questo esperimento è stato oggetto di critiche; le differenze rispetto all’originale, in apparenza minime, lo differenziano significativamente pertanto i risultati non possono essere paragonati [Fonte: “Reflections on “Replicating Milgram” (Burger, 2009)“]

La replica polacca del 2015

Esiste una reinterpretazione del Milgram Experiment condotta in Polonia nel 2015, che per motivi etici ha attinto alle modalità di sperimentazione di Jerry Burger. La variante più significativa è l’introduzione del denaro: i volontari, ad ogni scarica inflitta all’allievo, ricevevano un piccolo premio monetario.

L’esperimento è stato documentato in un paper pubblicato su SAGE, ma è stato accolto tiepidamente dalla comunità scientifica ed è generalmente ritenuto poco attendibile.


L’indagine della psicologa Gina Perry

La più accanita detrattrice del Milgram Experiment è la psicologa australiana Gina Perry. Quasi ossessionata dall’esperimento, riesce all’alba del 2010 ad entrare in possesso di tutti i reperti originali prodotti nel 1961: video, file audio, documenti e report.

Lo studio accurato di questa imponente mole di materiale porta la dottoressa a formulare un’ipotesi inquietante: gli esperimenti furono in qualche modo falsati, preordinati alla dimostrazione delle tesi che intendeva dimostrare Milgram, pertanto i risultati non possono essere considerati scientificamente attendibili.

Ad esempio, Milgram affermò che a tutti i volontari fu fatto il debrief, ovvero un colloquio in cui gli si rivelava l’esatto funzionamento dell’esperimento cui avevano partecipato e che nessun “allievo” si era realmente fatto male.

La Perry invece sostiene che in realtà solo ad una minima parte dei tanti volontari che si avvicendarono nel laboratorio dell’Università di Yale fu offerto un colloquio di supporto al termine dell’esperimento.

Dall’ascolto delle registrazioni audio inoltre, la psicologa apprende che l'”assistente” (lo ricordiamo: la figura di autorità presente nella stanza con il volontario) spesso e volentieri non si limitava alle 4 indicazioni predefinite ma usciva dal copione tentando una vera e propria coercizione dell’insegnante.

Un’altra obiezione al Milgram Experiment da parte della dottoressa Perry è che è palese come la maggior parte dei volontari avesse capito quasi subito che si trattava di una simulazione e che tutti, nel laboratorio, stessero recitando. Tradotto: stavano al gioco, e giocavano anche loro.

L’indagine di Gina Perry non ha mai trovato spazio su una rivista scientifica, ma è stata pubblicata sul libro: “BEHIND THE SHOCK MACHINE: The Untold Story of the notorious Milgram Psychology Experiments“.


Obbedienza all’autorità: il dibattito prosegue ancora oggi

La maggiore o minore predisposizione umana ad assecondare i voleri dell’autorità è una materia affascinante. La questione nacque a seguito dei processi ai nazisti nel dopoguerra (“Io eseguivo solo gli ordini…“), ma si pensi a quanto questo si applichi quotidianamente nella vita di tutti. Sul lavoro, in politica, persino tra le proprie conoscenze si verificano talvolta dinamiche tali per cui un capo o un amico carismatico possono indurre una persona a fare cose che normalmente non farebbe.

L’approccio che ebbe Stanley Migram, il primo della storia a tentare di testare in ambiente scientifico una sinistra caratteristica umana su cui mai prima ci si era posti domande, fu -oltre che moralmente discutibile- troppo semplicistico se visto con gli occhi di oggi.

La cieca obbedienza all’autorità, infatti, non è automatica e naturalmente insita nell’animo umano. Necessita di ulteriori fattori che la alimentino.

Nel 2012 un articolo a firma degli psicologi americani Stephen Reicher e Alex Haslam: “Contesting the “Nature” Of Conformity: What Milgram and Zimbardo’s Studies Really Show” (PLOS, 2012, full text) parte analizzando gli esperimenti di Milgram e di Zimbardo (L’esperimento della prigione di Stanford) e suggerisce che l’eseguire ordini da parte di un’autorità necessita di almeno due fattori che alimentino la maggiore o minore inclinazione all’obbedienza.

Il primo, è quanto il sottoposto concorda con le decisioni del proprio superiore. Quanto, quindi, l’ordine impartito rispecchia gli ordini che egli stesso avrebbe impartito a ruoli invertiti.

Il secondo, è quanto il sottoposto si identifica con il proprio superiore. Quanto, quindi, (per motivi politici, religiosi, ideologici ecc.) l’ordine impartito è coerente con l’affinità che sente con l’autorità.

Senza contare, infine, che in ambito reale, l’ordine impartito può essere “potenziato” da persuasione (verso cui l’essere umano si rivela spesso debole) e maggiore o minore influenzabilità dell’individuo.

In conclusione

Gli esperimenti di Milgram, visti con gli occhi di oggi e dopo decenni di dibattito in seno alla comunità scientifica e psicologica, potrebbero apparire moralmente discutibili e semplicistici. Alla luce delle recenti scoperte, inoltre, vi sono un bel po’ di dubbi sull’attendibilità dei risultati e sul metodo seguito nella conduzione dei test.

Detto questo, il Milgram Experiment, ancor più dello Stanford Prison Experiment, viene e verrà sempre ricordato nella Storia per aver dato via ad una questione, L’obbedienza all’autorità, che ha ispirato negli anni ricerche ed esperimenti finalizzati a comprendere meglio questo lato oscuro della personalità dell’uomo.

Le persone comuni, semplicemente facendo il loro lavoro e senza alcuna ostilità, possono diventare agenti di un terribile processo distruttivo. Inoltre, anche quando gli effetti distruttivi del loro lavoro diventano palesemente chiari e viene loro chiesto di compiere azioni incompatibili con gli standard morali fondamentali, relativamente poche persone hanno le risorse necessarie per resistere all’autorità

Stanley Milgram, 1974
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Pavel Fucsovic
Nato in Croazia ma naturalizzato Italiano, Laureato in Scienze Motorie e raffinato scrittore di brevi racconti. Collabora anche con testate web locali del Nord-Est. ------ Note biografiche disponibili nella pagina Redazione | Tutti gli articoli, ove non espressamente specificato, sono sottoposti a Revisione Scientifica e Fact Checking.
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